Due di Gisella Cominone

Luca e Anna si conoscevano meglio di chiunque altro.

Avevano lo stesso modo di scherzare, amavano la stessa ironia e sapevano i segreti l'uno dell'altra.


Lui abitava a Perugia. 

Lei abitava a Parma.

Non si erano mai incontrati, ma durante una brutta e lunga quarantena nazionale si erano trovati a un evento on line di un artista amato da entrambi.

«Mi insegnerai le cose che devo imparare a fare e mi farai agire bene?» digitava sulla tastiera lui.

«Farò di te un'aquila!» ticchettava lei dal PC.

Quel giorno, Luca decise che Anna era la persona cui potersi affidare.

Lo stesso giorno, Anna decise che avrebbe reso Luca perfetto.

E iniziarono a scambiarsi mail e messaggi ogni giorno.

Luca di solito comandava e controllava. Non era tipo da affidarsi. Mai. Erano gli altri ad affidarsi a lui. E lui, minuzioso e scrupoloso, gestiva tutto.

Si occupava della sua azienda e dei bisogni di ogni singolo dipendente; cucinava pasti sani e nutrienti su calcoli calorici settimanali, organizzava gli spazi domestici e gli orari della sua famiglia, aiutando la moglie Iris e i figli.

Vestiti ordinati e suddivisi per categorie, pianificazioni dettagliate di ogni agenda.

Nulla sfuggiva al suo controllo, perché lui non poteva permettersi di avere qualcosa fuori controllo.

Iris era medico, moglie e madre in gamba, ma lui doveva personalmente mettere mano all'organizzazione capillare della quotidianità. Era stancante, ma lui funzionava così. Iris non aveva mai obiettato. D'altra parte, lavorando tante ore andava bene.

Finchè, con Anna, fuori controllo non finì lui. Perché scoprì che in realtà aveva un disperato bisogno di lasciarsi portare. Solo che non sapeva che avrebbe voluto farsi dominare.

Anna si affidava. Solo in particolari condizioni e con persone selezionate. Ma non si faceva dominare. Mai. Un conto era lasciarsi guidare da qualcuno di cui si poteva fidare, le tre migliori amiche e suo marito. Un altro conto era farsi dire cosa fare: nessuno aveva questo privilegio. Tranne suo marito, in rare eccezioni, tra le lenzuola.

Non era ordinata. Anzi. Eppure cercava ogni giorno di costruirsi un ordine mentale partendo dagli spazi domestici. E per lei, che teneva mutande e calze mischiate insieme in cassetti diversi, non era facile. Così come non le era sempre facile portare a termine qualcosa, perché la noia era sempre accovacciata alla sua porta, pronta a entrare di colpo.

Molte persone si affidavano a lei, perché lei se ne prendeva cura.

La sua migliore amica, per esempio, le telefonava per sbuffare: 

«Ho litigato con mia suocera» 

sapendo che Anna l'avrebbe tirata su di morale.

«Dobbiamo dare un Oscar a questa donna, per l'impegno atto nello sminuzzare le palle. Non è possibile che nessuno ci abbia mai pensato» rispondeva infatti Anna, strappandole una risata liberatoria.

Per Anna era fondamentale assolvere i compiti che le venivano richiesti, pena la delusione eterna. E la delusione, per lei, era l'esilio dall'esistere. 

Quando faceva la mamma, per sua figlia dava il massimo e si spremeva fino all'ultima cellula.

Per suo marito doveva essere la donna più interessante e desiderabile. Lei doveva dargli qualcosa che nessun'altra avrebbe potuto dare.

Quando Luca si affidò a lei non sapeva quello che le sarebbe successo. Sapeva solo che voleva che Anna fosse la Regina Madre cui affidare la propria vita. E fu ciò che successe, fino a un certo punto.

«Vorrei che mi dicessi come vestirmi» le scrisse. «Voglio che tu mi dica quello che vuoi da me e io ti ubbidirò». Anna, dall'altra parte dello schermo, rise un pochino.

«Dai, facciamo una prova di ubbidienza allora. Alzati e ripeti tre volte il mattino ha l'oro in bocca» 

Luca però provò un brivido mentre leggeva.

«No, dai. Mi fai paura»

Anna rise. E sentì qualcosa sconosciuto fino a quell'istante, che non aveva un nome. Aveva solo un sapore, il sapore del potere su di un'altra persona.

«Ma figurati! Che vuoi che sia! Dai, ripeti con me...»

«...Il mattino ha l'oro in bocca

Il mattino ha l'oro in bocca

Il mattino ha l'oro in bocca»

«Bravissimo!»

«Oh mamma, che ho fatto?»

Lei scelse una faccina che rideva con le lacrime.

Invece lui non stava ridendo. Si sentiva stringere lo stomaco.

«Chi sei tu, il Diavolo?»

E di nuovo quella cosa senza nome, che rispose per lei.

«Sono quello che vuoi che sia».

E il piano si inclinò. Il sapore del potere di Anna si assestava nella sua bocca. E lei lesse attraverso lo schermo che lo stesso sapore lo sentiva lui.

A lei piaceva.

A lui piaceva, e ne fu sconvolto perché non era mai successo.

A lei piaceva che a lui piacesse.

Da lì in avanti si poteva solo rotolare.

Partirono lenti. Lei lo faceva vestire come decideva lei, dai boxer alle scarpe. Gli diceva come pettinarsi, come bere, come stare in casa e a letto. E lui si sentiva visto, guardato, tenuto e maneggiato come solo i bebè che si rispecchiano negli occhi e nel sorriso della madre innamorata si sentono: unici e speciali. E ne godeva.

Gli mandava esercizi di crescita personale, mantra da ripetere. Sarebbe diventato il suo uomo perfetto. E se avesse reso migliore lui, avrebbe reso migliore il mondo.

Poi arrivarono le telefonate e le video chiamate.

I compiti che Anna gli dava erano sempre più intimi. Perché lui ne aveva bisogno. Ogni bisogno soddisfatto ne chiamava uno più intenso, in una discesa verso qualcosa di sempre più lontano dal punto iniziale.

«Oggi non puoi venire, il tuo orgasmo è mio»

E lui gemeva e ubbidiva, da lontano.

«Sì, mia regina»

E poi la quarantena cessò. 

Entrambi volevano di più. Arriva sempre un punto in cui si abbassa la guardia e si commette l'errore.

In quel caso, l'errore lo commise Anna.

«Ehi bimbo, dopodomani sono a Perugia per lavoro. Ceniamo insieme?»

Non badò al ritardo insolito nel rispondere, come al fatto che non le avesse mandato alcuna faccina o scritto una risposta ironica, come era solito fare. Era stato dolce, e tanto bastava. Non vi badò, purtroppo, perché la voglia di vederlo era troppa. E fu quell'errore, a esserle fatale.

Non seppe che a Luca fu risparmiata la vita unicamente per il bene dei figli. Ma non seppe neanche che lui aveva assistito alla preparazione della moglie Iris, legato a una sedia, da quando aveva risposto ad Anna a quando uscì per andare a ucciderla.

«Te la vado a prendere io, la tua troia» gli aveva sorriso strizzando l'occhiolino folle mentre apriva la porta.

E quindi, quando arrivò alla stazione di Perugia, era rossa, pulsante, rideva senza accorgersene, perché finalmente l'avrebbe visto.

Quando Anna era felice, voleva che tutti fossero felici. Sorrideva e, se poteva, parlava a chiunque, voleva condividere il suo scoppiettio, non ce la faceva a tenerselo dentro.

Quando quella donna carina e gentile le chiese aiuto, con quella maglia bucata e i pantaloni bucati, gli occhi gonfi e rossi, la seguì felice di poter essere utile, perché sono le piccole azioni che cambiano il mondo.

Quel pomeriggio anche lei ricevette la sua piccola azione.

Iris Mancini era una cardiochirurga, appassionata di anatomia, amante degli horror. E gelosa in modo territoriale, possessivo ed estremo. Folle. Ma senza che nessuno ne subisse conseguenze. Fino a quel giorno.

Quando Anna la seguì nel bagno della stazione, Iris fu svelta.

Quando Iris la fece entrare nel bagno, Anna fu troppo lenta. Lo stupore, l'incredulità fu la causa di quei riflessi mancati per pochi secondi.

Mentre Iris le penetrava la lama del coltello precisamente nella carotide, i suoi occhi si spalancarono per la sorpresa per l'ultima volta.

Mentre Anna cadeva a terra zampillando dal collo, Iris la osservava con lo sguardo schifato di chi schiaccia uno scarafaggio.

Era lei, la puttana che aveva reso suo marito una marionetta? Era tutta lì?

Si abbassò sulla testa ancora sudata per soffiare in quegli occhi vuoti:

«Hai finito di fare la stronza».

E uscì dal bagno per lavarsi bene le mani.

Era ora di tornare a casa, Luca la aspettava.

Due©Gisella Cominone

Notizie sull'autrice



Gisella Cominone ha trentasette anni. 
Insegna, canta, scrive, non necessariamente in quest'ordine. 
Ha una famiglia che ama e tanto da raccontare. 

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